Reagire alle frasi tossiche: ecco come si fa - www.medjugorje - news.it
Nel panorama attuale della psicologia e delle neuroscienze, emerge con forza l’importanza delle parole che utilizziamo quotidianamente, spesso inconsapevolmente, e il loro legame profondo con le esperienze infantili.
Frasi apparentemente innocue come “non importa” o “faccio da solo” sono molto più di semplici abitudini linguistiche: rappresentano vere e proprie strategie di difesa che il cervello ha sviluppato da bambini per proteggersi da delusioni e incomprensioni.
Quante volte, nel corso della giornata, ci si sorprende a dire “non importa” o “faccio prima da solo”?
Queste espressioni, più che semplici modi di dire, sono segnali di una mente che ha imparato a spegnere i propri bisogni per evitare la sofferenza. Secondo le più recenti ricerche neuroscientifiche, quando durante l’infanzia siamo stati ignorati o fraintesi, il cervello adotta una strategia di silenzio: esprimere un bisogno equivale a esporsi al dolore.
Il corpo, tuttavia, conserva una memoria fisica di questi traumi, anche se la mente razionale non ne conserva il ricordo. In contesti percepiti come minacciosi, il sistema nervoso reagisce con risposte fisiologiche automatiche, come un battito cardiaco accelerato o una respirazione affannosa, rivelando così una memoria implicita ancorata alle sensazioni. Questo fenomeno, studiato approfonditamente negli ultimi anni, conferma che il trauma infantile si manifesta prima ancora che la coscienza possa intervenire.
Altre espressioni ricorrenti, come “ci sono abituato” o “sono fatto così”, non sono meri segnali di carattere, ma indicano una profonda rassegnazione emotiva. Questo atteggiamento nasce da un adattamento neurologico noto come disconnessione interocettiva, che porta a un distacco dalle proprie emozioni autentiche.
Il cervello, dopo ripetuti rifiuti o insuccessi nel ricevere conforto, riduce la produzione di dopamina, la sostanza chimica che motiva all’azione e alla speranza. Di conseguenza, emerge una preferenza per la “sicurezza” della resa emotiva piuttosto che il rischio della speranza.
Il motto “faccio da solo” è forse il più ingannevole, perché maschera una paura profonda: quella di affidarsi agli altri e di restare delusi. Studi neuroscientifici recenti spiegano che chi vive in uno stato di iper-autosufficienza presenta un’amigdala costantemente iperattiva, la quale alimenta una risposta di allerta permanente. Nel contempo, la corteccia prefrontale, responsabile della fiducia e della gestione delle relazioni sociali, risulta meno attiva, generando una percezione degli altri come potenziali minacce anziché risorse.
E’ un qualcosa che si può combattere – www.medjugorje-news.it
La novità più incoraggiante emersa dalle ultime scoperte è che il cervello, grazie alla sua neuroplasticità, può modificare questi schemi di pensiero e comportamento apparentemente radicati. Non si tratta di un semplice ottimismo, ma di un processo che prevede l’introduzione di nuove esperienze emotive capaci di indicare al sistema nervoso che non esiste più alcuna minaccia.
Per esempio, sostituire la frase automatica “preferisco non chiedere” con “oggi provo a chiedere una cosa piccolissima” può essere il primo passo verso il cambiamento. Allo stesso modo, trasformare un’affermazione come “non mi aspetto niente” in “mi concedo un’aspettativa concreta e realistica” invia al corpo segnali di sicurezza. Ogni piccola vittoria, infatti, contribuisce a rallentare il battito cardiaco, a rendere più profondo il respiro e a ricostruire gradualmente la fiducia in sé stessi e negli altri.
Questi interventi mirano a riscrivere quella che viene definita “profezia implicita”, quell’eco interiore che sussurra la paura del fallimento. Guarire non significa cancellare il passato, ma imparare a parlare a sé stessi con un linguaggio nuovo, capace di riconnettersi con le emozioni autentiche e di liberare la mente da vecchie catene.